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Fiaccolata organizzata da diverse associazioni nonantolane il 28 marzo scorso. Foto: Massimo Barbieri

Una comunità in cammino. Le nostre idee su coesione e politiche sociali

Fino a una decina d’anni fa si parlava della “società dei due terzi” cioè di una società che vedeva la vasta maggioranza della popolazione integrata verso l’alto in una condizione di sicuro benessere. Solo una fascia residuale di rischio e di disagio sociali rimaneva in basso.

Oggi si parla invece della “società dei quattro quinti”. Una fascia molto ristretta della società (un quinto) si colloca in alto con reddito elevato e sicuro, mentre il resto (i quattro quinti) appare come una platea di popolazione vulnerabile e vulnerata che si barcamena tra occupazione a rischio, lavoro precario, disoccupazione e redditi decrescenti e incerti. Molti di noi (che scriviamo) e molti di voi (che leggete) si sentono esattamente in questo fragile equilibrio, che ci sospinge verso il basso. Alcuni rispondono con forme di risentimento e rancore nei confronti degli “ultimi”, come se fossero “gli ultimi” la causa del loro scivolamento verso il basso. Noi al contrario vogliamo mettere a fuoco le cause reali del nostro impoverimento e, sul piano dell’intervento sociale, creare nuove alleanze e nuove consapevolezze che creino coesione e cooperazione tra le persone che vivono o lavorano a Nonantola in situazione di precarietà e fragilità.

Di fronte alle povertà e alle vulnerabilità sempre crescenti è necessario compiere un cambio di passo nella cultura e nelle pratiche dei servizi sociali territoriali che vada con convinzione verso una rinnovata idea di lavoro di comunità. Dove con ciò non intendiamo la delega di quegli interventi che il servizio pubblico non è più in grado di sostenere a una generica comunità di “buoni” (volontari, attivisti, uomini di buona volontà), quanto piuttosto il più alto coinvolgimento delle risorse, degli sguardi critici, delle competenze, delle alleanze che già esistono sul territorio di Nonantola.

Per questo crediamo indispensabile:

– non pensare e gestire i servizi sociali con un approccio tecnocratico e solo di tipo assistenziale, ma sburocratizzare gli interventi e le prese in carico, superando l’eccessiva settorializzazione e riduzione delle persone in categorie rigide (povertà, dipendenza, migranti, disagio, minori, ecc).

– considerare che ogni intervento sociale sia volto a trasformare gli “utenti” passivi di prestazioni esterne in soggetti capaci di esprimere proprie energie latenti, di riprendere iniziativa, di trovare sempre possibili spazi di autonomia: aiutare a “far da sé”;

– individuare un luogo permanente, promosso e guidato dai servizi sociali e culturali comunali, di ricerca e azione, in cui si ritrovino gli attori per scambiare informazioni e conoscenza, pensare, concretizzare e seguire assieme i progetti collettivi e di sostegno alle persone e alle famiglie;

– avviare uno sforzo di lavoro trasversale e straordinario che affronti i temi che ci sembrano più urgenti e complessi: il diritto alla casa, il lavoro, l’accesso ai servizi, il rafforzamento di progetti di mutuo sostegno e vicinato tra e per le famiglie e i singoli;

– avviare un percorso di formazione congiunta per operatori pubblici dei servizi sociali e culturali, comuni cittadini e attivisti, per costruire linguaggi condivisi e per esplorare nuove forme di collaborazione.

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