Nel novembre scorso “Una mano per Nonantola” ha deciso di dedicare la sua prima uscita pubblica al pensiero politico di Simone Weil. Per la lucidità, la profondità e l’autonomia con cui ha saputo confrontarsi con i problemi più urgenti del suo tempo, le analisi e l’esempio di Simone Weil hanno ancora molto da insegnare a chi voglia confrontarsi con i conflitti e le incognite del proprio. Certo si tratta di un modello molto alto, per certi versi irraggiungibile. Ma il pensiero è giusto che proceda senza parapetti. La pratica, anche quella politica, deve scendere a compromessi, ma lo deve fare a partire da idee alte, convincimenti profondi. In fondo è questo uno degli obiettivi che “Una mano per Nonantola” si propone con il suo esperimento: dare un po’ di spinte ideali, vitali, progettuali alla nuova amministrazione di Nonantola.
Molto citata e poco letta, si è consolidata nel tempo un’immagine della Weil stereotipata e innocua, avvolta da un’aura di santità: da giovane militante rivoluzionaria a mistica cristiana delusa dalla politica. Le cose non stanno così. La politica è anzi il filo rosso che collega e dà coerenza a tutte le analisi e le esperienze della sua breve e intensissima vita: dal lavoro in fabbrica per toccare con mano “la condizione operaia”, all’arruolamento nella Colonna Durruti durante la guerra civile spagnola, ai servizi resi al governo francese in esilio a Londra fino a poco prima di morire, nel 1943.
Ma è una politica completamente rinnovata quella a cui pensava Simone Weil, “un tutt’altro modo di concepire la politica, a partire dalla convinzione che la verità non sta scritta né in cielo, né nella mente dei filosofi, ma sta scritta tutta nella condizione umana, e che dunque qui bisogna imparare a leggerla con il massimo rigore, e poi col massimo rigore e disinteresse bisogna metterla in pratica, per quanto è possibile, per il bene di ciascuno e di quanti più possibile.”
Sono queste alcune delle parole che a lei ha dedicato Giancarlo Gaeta, il suo più importante studioso italiano, curatore e traduttore della maggior parte delle opere pubblicate in Italia. Tra i suoi lavori più recenti, la riedizione del pamphlet weiliano Sulla soppressione dei partiti politici (Edizioni dell’Asino) e la raccolta di saggi Leggere Simone Weil (Quodlibet) che rappresentano una preziosa occasione per scoprire una delle figure più originali e attuali della filosofia politica del ‘900. Quella che segue è la trascrizione, rivista dall’autore, dell’intervento che Gaeta ha tenuto a Nonantola, il 24 novembre scorso, in sala Sighinolfi, dedicato agli sviluppi del pensiero politico negli ultimi anni di vita di Simone Weil. (Luigi Monti)
Proverò a tenere presente due esigenze: darvi conto del pensiero politico di Simone Weil nell’ultimissima fase della sua vita, avendo d’altra parte presente che molti di voi sono in questo momento interessati a un impegno politico attivo. La relazione tra queste due esigenze può sembrare singolare considerata la distanza temporale e l’immagine corrente che si ha di lei come di una figura spirituale; in realtà la distanza temporale è solo apparente e il pensiero di Simone Weil è “politico” nel senso forte del termine. Di volta in volta filosofico, religioso, scientifico o propriamente politico, il movimento del suo pensiero è stato sempre volto a intervenire sulla realtà delle cose e a dare sostanza reale ai problemi e ai conflitti del suo tempo, oltre che più in generale ai problemi che concernono la condizione umana in quanto tale. Problemi che, a ben guardare, sono in larga misura tutt’ora i nostri problemi. Bisogna partire da questa sua particolarità, che la differenzia da gran parte degli intellettuali del Novecento. Ovviamente non è stata l’unica a muoversi in questa direzione (penso a Hannah Arendt, a Walter Benjamin), ma generalmente è l’astrazione – nelle teorie sociali, economiche, politiche – che ha prevalso ampiamente nel pensiero novecentesco rispetto all’esigenza di leggere i problemi concreti della società e di provare a dar loro una risposta non ideologica né strumentale, bensì all’altezza dei reali bisogni fisici e morali degli individui.

L’impegno londinese
I mesi trascorsi a Londra – gli ultimi della sua vita –, tra la fine del 1942 e la primavera 1943, Simone Weil li spese in un’attività intellettuale febbrile alle dipendenze del governo francese in esilio, dal quale fu assunta con il compito di analizzare i documenti provenienti dalla resistenza francese e di redigere proposte operative in vista della riorganizzazione del paese dopo la guerra. e della stesura della Costituzione. Per lei fu l’occasione per ripensare a fondo la cultura politica e l’assetto istituzionale da dare alla nuova Francia. Ma il suo contributo, depositato in una quantità impressionante di scritti, non fu preso in considerazione né allora né dopo la guerra. Ci furono scontri con i collaboratori di De Gaulle, scontri che ruotarono per lo più intorno a un punto: ciò che lei proponeva risultava estraneo al pensiero politico corrente e non agibile politicamente. Fu accusata di perdersi dietro a idee del tutto astratte e a proposte operative folli (come nel caso del suo Progetto di formazione di infermiere di prima linea).
Perché? In cosa dunque consisteva agli occhi dei colleghi l’anomalia della giovane filosofa? L’incomprensione nasceva dal fatto che le categorie di pensiero che agivano nella testa degli interlocutori di Simone Weil erano totalmente altre da quelle che informavano il suo pensiero. Ciò a cui lei pensava era fondamentalmente un rovesciamento del modo di concepire la cosa pubblica. Che andrebbe oramai sostanziata da una concezione filosofico-politica e giuridica altra da quella che aveva portato alla crisi della civiltà europea, crisi insuperabile senza un rinnovamento radicale del modo di concepire l’uomo e il suo destino.
In altri termini Simone Weil chiedeva di spostare l’attenzione dalla pura ridefinizione degli assetti istituzionali all’esigenza di ripensare i fondamenti politici, giuridici e spirituali della Francia e in prospettiva dell’Europa tutta in vista della ricostruzione, e di farlo a partire dal riconoscimento dei bisogni essenziali al vivere, dunque dal basso della condizione sociale. È questo spostamento a porla in contrasto con le correnti principali del pensiero filosofico-politico contemporaneo: illuminismo, marxismo, personalismo cattolico. Nelle quali Simone Weil non trovava che l’individuo costituisse il punto di riferimento fondamentale per la costruzione della vita pubblica.
Ne sono esempi maggiori l’idea della subordinazione del diritto all’obbligo, che pone in questione convincimenti radicati relativi alla funzione del diritto in rapporto alla domanda di giustizia. E perciò il rifiuto del nesso costitutivo di sovranità e forza nella concezione moderna dello Stato, che di fatto subordina il perseguimento della giustizia al conseguimento e accrescimento del potere. D’altra parte, l’accusa allo stato-nazione di avere avuto un ruolo principale nei processi di sradicamento fisico e morale delle società moderne in conseguenza della sua consustanziale tendenza alla centralizzazione. Processi potenziati dal predominio della logica economicistica in tutti i settori della vita pubblica e privata. Una potenza dunque di penetrazione dell’astratto e del generale nel concreto e particolare degli individui avrebbe informato nella modernità un nuovo tipo di società oppressiva, che tale resta a prescindere dalle forme di governo, sottratte comunque all’effettivo controllo dei cittadini. Di qui la necessità di un rovesciamento nella considerazione della cosa pubblica, che sposta lo sguardo dalla sfera del potere alla domanda di giustizia e perciò colloca negli individui un limite alla sovranità dello Stato nei suoi rapporti con essi.

La natura totalitaria dei partiti
Al contrario l’esigenza fondamentale di tutte le correnti politiche è quella di gestire dall’alto la vita sociale. L’esistenza dei partiti politici ne è un esempio eclatante. Simone Weil ne propone senz’altro l’abolizione. Il riferimento ai partiti politici in quel frangente storico era ovvio, dopo la stagione dei totalitarismi che dei partiti politici avevano fatto piazza pulita. A nessun politico sarebbe passato per la mente che in una democrazia moderna potessero esserci altre strutture di mediazione tra i cittadini e le istituzioni che non fossero i partiti politici. Si trattava in definitiva di trovare nuove regole alle vecchie forme di partecipazione. Cosa c’era di più ovvio che rifondare il gioco democratico sui partiti politici che i regimi totalitari avevano cancellato?
Le osservazioni critiche, durissime, che Simone Weil rivolge all’idea stessa di partito politico cominciano ad essere leggibili soltanto ai nostri giorni. Solo ora le affermazioni di questo suo saggio cominciano ad apparirci evidenti. L’attacco alla forma-partito consiste nella denuncia del suo carattere potenzialmente totalitario anche in presenza di una pluralità di partiti. Totalitari i partiti lo sono per propria natura, perché concepiti per occupare all’esterno tutto lo spazio politico disponibile e indurre all’interno gli aderenti a identificarsi con un’ideologia e a sottomettersi alla volontà dei vertici. Una volta che si è aderito, si diventa parte di una struttura con cui si è indotti ad identificarsi completamente se si vuole avere un ruolo politico. Così come nelle istituzioni religiose. In questo senso i partiti appaiono forme secolarizzate delle chiese. E laddove si determinano processi di identificazione totale, con una chiesa o un partito o una nazione, si smette di essere propositivi, non ci si sente più autorizzati a dare il proprio libero contributo alla vita della comunità, si smette di pensare con la propria testa.
La giustizia o è adesso o non è
L’idea di Simone Weil era al contrario che il l’ordine istituzionale nato dopo la guerra dovesse porre a fondamento il perseguimento della giustizia. Un principio che i partiti di massa della seconda metà del Novecento hanno avuto presente, ma come aspirazione, come obiettivo di fatto irraggiungibile, non come principio costitutivo. Nella migliore delle ipotesi alla giustizia si è seguitato a pensare come ad un bene a cui aspirare, un orizzonte ideale di fatto dipendente dal materializzarsi di condizioni socio-economiche atte a favorirla in qualche misura. Se giustizia, ad esempio, vuol dire che gli operai non devono essere costretti a lavorare in condizioni vessatorie, sarà l’ordine economico a decidere se e in che misura potranno essere modificate; ci si affida dunque a un meccanismo che funziona secondo una logica propria. Si obbietterà che nel corso del tempo si progredisce, si ottengono nuovi diritti, si lotta perché le condizioni di lavoro migliorino, ma le conquiste restano subordinate a interessi altri rispetto a quelli della giustizia. In altri termini laddove l’esigenza di giustizia non orienta e sostiene la vita politica, il suo perseguimento è continuamente spostato in avanti, e le conquiste continuamente messe in questione non appena lo esigano le esigenze socio-economiche. Lo si è visto in questi anni, nei quali pensare politicamente in termini di giustizia e di nuovo semplicemente fuori luogo.

Dalla cultura del diritto alla cultura dell’obbligo
Sarebbe molto interessante ricostruire il processo che ha condotto Simone Weil a questa concezione politica; ora non possiamo farlo, ma sta di fatto che in quei mesi a Londra ella mise a fuoco un nodo politico che le apparve decisivo e fu una conquista intellettuale di prim’ordine. Penso sia partita da una costatazione di fatto, maturata su dieci anni di esperienze e riflessione politica a stretto contatto con i movimenti rivoluzionari: la concezione corrente della gestione della vita pubblica, anche laddove prevede forme di partecipazione democratica, non favorisce il libero sviluppo e confronto tra una pluralità di idee e sensibilità politiche; non consente all’individuo di maturare una propria visione del bene pubblico e di confrontarsi attivamente con altri in una dinamica politica attiva a vari livelli. Piuttosto ostacola i percorsi lungo i quali una pluralità di idee possono maturare ed entrare in un dinamismo politico volto ad affrontare e risolvere problemi concreti. Nell’organizzazione politica della società e della vita pubblica, l’individuo con i suoi bisogni concreti non ha effettivo spazio di parola, né è tenuto presente come referente specifico dell’attività politica, al di là dei momenti in cui è chiamato ad esercitare il voto e anche in questo con una consapevolezza assai limitata di ciò che è effettivamente in gioco.
Il saggio Sulla soppressione dei partiti politici ha come retroterra questa lettura della vita sociale. Come uscirne? La risposta si trova in un altro breve testo coevo, in cui Weil fissa l’idea guida della sua riflessione politica. Lo intitola Studio per una dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano (lo si trova raccolto insieme a quello suo partiti politici in un piccolo volume pubblicato dalle Edizioni dell’Asino). È forse il più “scandaloso” tra gli scritti furiosamente redatti in quei giorni ultimi, e dà tutta la misura dell’anomalia e della radicalità della sua posizione. Si tratta fondamentalmente di una critica alla cultura dei diritti, un rovesciamento totale dell’ideologia politica comune a tutte le concezioni politiche della sua e nostra epoca. Lo si ritroverà in altra forma a prologo de L’enracinement (La prima radice in italiano), il grande saggio rimasto incompiuto in cui Weil ha schizzato un nuovo modello di società, ed è alla base di un altro fondamentale scritto, La persona e il sacro, che rappresenta il suo tentativo più avanzato di aprire uno squarcio sulla pratica di una concezione alternativa della politica.
Il rovesciamento consiste in questo: la cultura dei diritti, su cui si fonda la moderna organizzazione politica e istituzionale delle democrazie occidentali, si basa sull’idea di diritto ereditata dalla rivoluzione francese: Stato di diritto, Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Weil pensava invece che il principio fondante dovesse essere l’obbligo, vale a dire il sentirsi in obbligo verso il prossimo, verso i bisogni fondamentali del prossimo, per il semplice fatto che si tratta di esseri umani. Il diritto di per sé questo non lo garantisce, perché è collegato alla forza, dalla quale dipende. I diritti, di qualunque genere essi siano, possono essere ottenuti soltanto nella misura in cui si ha la forza sufficiente per esigerli, ottenerli e farli rispettare, altrimenti restano nell’ambito dei desideri o in balia del mutare dei rapporti di forza.
In altri termini i diritti sono sempre legati a condizioni di fatto. Soltanto riconoscendosi in obbligo verso ogni essere umano in quanto tale, dunque incondizionatamente, il diritto è liberato dal vincolo che lo lega alla forza; infatti primario è in questo caso non l’aspettativa che altri riconoscano un mio diritto, bensì l’obbligo ad esso corrispondente. Come Simone Weil scrive nelle prime righe de L’enracinement, «L’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa», obbligo che, diversamente dal diritto, sussiste di per sé a prescindere che venga o meno riconosciuto. Perciò Weil avrebbe voluto che la Costituzione francese uscita dalla guerra trovasse fondamento in una “dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano”. In tal modo il nuovo ordinamento giuridico avrebbe trovato fondamento in un principio trascendente riconosciuto come universalmente valido.

Un’esigenza insopprimibile di bene
Fondare la carta costituente sull’obbligo vuol dire fondare la vita pubblica su un’idea che in senso lato è “religiosa”, perché fa riferimento a un elemento trascendente. Cos’è infatti che mi può obbligare a rispettare i bisogni del mio prossimo? Nella concezione corrente è il diritto: solo se mi viene imposto dall’esterno, sono in obbligo di riconoscere i diritti dell’“altro”; si tratta di una regola, che per essere obbedita necessita dell’uso della forza. Nella concezione di Simone Weil alla base del vivere civile non c’è un’imposizione, quanto piuttosto il riconoscimento che ciascun individuo porta in sé stesso un’esigenza insopprimibile di bene, qualcosa cioè che lo abita e insieme lo trascende. Chi, dunque, riconosce questa altra realtà riconosce anche il legame con gli altri, considera ogni altro essere umano, senza eccezione, come qualcosa di sacro a cui è tenuto a testimoniare rispetto. Non c’è altro movente possibile per il rispetto universale «quale che sia la formula di credenza o di incredulità che un uomo abbia voluto scegliere». Colui che intende praticare questo rispetto riconosce di fatto una realtà altra da quella di questo mondo; colui al quale questo rispetto è di fatto estraneo, a costui anche l’altra realtà è estranea.
Vedete che al fondo di questa concezione c’è un’antropologia più che una fede religiosa. «Quale che sia la formula di credenza o di incredulità che un uomo abbia voluto scegliere»: esiste un sentimento universale che secondo la Weil caratterizza tutti gli uomini di tutte le epoche e sul quale va pensato e costruito un nuovo ordinamento giuridico e istituzionale. Vale a dire il sentimento che ci venga fatto del bene e non del male, indipendentemente dal male fatto o subito. Il paradigma politico e giuridico proposto da Weil muove dal riconoscersi “obbligati” nei confronti di questo sentimento universale.
Nuovi spazi di libertà
Non saprei dire se e fino a che punto questa visione sia praticabile, per la semplice ragione che non è mai stata praticata. Tuttavia una cosa mi sembra che in questo momento sia chiara. E cioè che tutto l’apparato che negli ultimi settant’anni ha governato la cultura politica occidentale, si sta sfasciando. E per certi versi è positivo che si stia sfasciando. Perché comincia a venire meno un impedimento a tornare a pensare con la propria testa.
In alcune pagine dedicate alla questione coloniale (La colonizzazione e il destino dell’Europa), c’è una sorta di profezia che Simone Weil fa su quello che sarà il destino non solo dell’Occidente, ma del mondo intero. Alla vigilia della fine della guerra scrive che il pericolo più grande che abbiamo di fronte è “l’americanizzazione del globo terrestre”. Temeva la spartizione del globo terrestre tra America e Unione Sovietica a discapito della civiltà europea. Teme in modo particolare “l’americanizzazione”, perché le appare più ingannevole rispetto all’altro “polo totalitario”. Più ingannevole nella misura in cui si presenta con i crismi della democrazia, della libertà, della partecipazione, ma finirà con l’imporre a tutti un unico modo di vedere portandosi dietro la distruzione delle culture specifiche. Pensava in modo particolare all’Oriente, a quei luoghi per i quali, nel 1943, si poteva ancora parlare di grandi tradizioni storiche, di grandi culture, che in qualche modo potevano ridare nutrimento alla cultura occidentale, una cultura che, dopo le dittature, i totalitarismi, i campi di concentramento, si stava autodistruggendo.
Sono abbastanza vecchio da aver attraversato la parabola della democrazia occidentale e devo dire che la cosa che ho sentito come impedimento un po’ per tutta la mia vita è stata questa impossibilità di rompere la crosta, di respirare a pieni polmoni, di uscire da schemi imposti, già “dati”, fossero i partiti, le ideologie, le chiese, i saperi. Pensate al potere della scienza, alla potentissima gabbia mentale che la scienza ha eretto nel Novecento. Su questo Weil ha scritto delle cose lungimiranti. Ha cercato di capire quali sarebbero state le conseguenze sulla vita quotidiana della rivoluzione scientifica alla svolta del Novecento. E aveva ragione, perché la ricaduta, che è stata principalmente tecnologica, ha eretto dei mondi autonomi dentro i quali ci è imposto di navigare e dentro i quali facciamo fatica a credere che si possa pensare diversamente da ciò che la scienza ci impone di pensare, liberandoci anzi in definitiva dal desiderio di capire.
Si è imposto un paradigma asfissiante. Certo, c’è anche un elemento perturbante che tutti voi sicuramente avvertite e l’aver costituito una lista civica credo che sia un tentativo di reazione: cioè che per tanti aspetti dell’attuale vita sociale stiamo tornando a una situazione simile a quella degli anni ’30. Anche su battaglie che davamo per vinte. Pensate ad esempio a cosa sta tornando a essere il lavoro in fabbrica e ancor più nei servizi. Leggete quel capolavoro che è il Diario di fabbrica, in cui Simone Weil analizza nel dettaglio il sistema di oppressione tecnologico, culturale, organizzativo del lavoro operaio, e ditemi se non stiamo tornando a qualcosa di analogo. Aris Accornero, che anni fa scrisse una bellissima introduzione agli scritti di Weil sulla Condizione operaia, pensava che si trattava oramai del passato. E invece non è più così. Pensate alla logistica, alla grande distribuzione, al lavoro su chiamata (nei nidi, nelle materne, nelle cooperative di servizio), pensate ad Amazon… Leggete gli ultimi lavori di Luciano Gallino sul lavoro precario o quelli di Alessandro Leogrande sull’Ilva di Taranto e Termini Imerese. Tendenze in atto che ci costringono a riparlare di proletarizzazione e oppressione.
Non nego quindi il rischio, concreto, di precipitare in nuove forme di nazionalismo, di fascismo, di violenza diffusa. Ma al tempo stesso mi sembra che si stiano aprendo nuovi spazi di riflessione e di azione da parte di quanti non si accontentano di denunciare il male che avanza, il fascismo che ritorna (denunce che non servono a niente, perché chi ha in mano la leva del potere va avanti come un bulldozer indifferente a tutte le lagne). Per fermarlo, il male, bisogna mettere delle zeppe dentro le sue ruote. E per mettere le zeppe bisogna aver coscienza che lo si può fare. Non c’è più nessun partito, nessuna chiesa che ci comandi di pensare cosa dobbiamo pensare.

Aree di affinità
Nel saggio sull’abolizione dei partiti politici, Simone Weil fa una proposta che a me sembra attuale e che forse riguarda un po’ anche il modo in cui dovrà muoversi “Una mano per Nonantola”. Sostiene che, in alternativa ai partiti politici, bisognerebbe dare vita ad aree di affinità.
Pensando a una nuova forma di organizzazione politica per l’Europa uscita dalla guerra, immaginava che il processo che doveva portare alle rappresentanze politiche dovesse muovere da situazioni esistenti e concrete, non dai meccanismi, ormai svuotati di ogni efficacia democratica, dei partiti. In alternativa alla forma-partito pensava, per fare qualche esempio, alle “riviste”, intese come luogo di aggregazione di idee e di pratiche politiche: i redattori e i lettori di una rivista, che è un luogo di pensiero, possono generare riflessioni intorno a problemi concreti. E tra i redattori e i lettori può esserci un certo numero di persone disposte a impegnarsi in prima persona a mettere in pratica le indicazioni sorte dalle loro discussioni, a portarle a livello delle istituzioni. Con aree di affinità intendeva quindi tutti quei luoghi – associazioni, gruppi, movimenti, reti – in cui ci si associa liberamente attorno a esperienze e problemi concreti, in cui possono maturare anche dei passaggi alla politica attiva, alla politica istituzionale, ma come strumento per un fine determinato.
A condizione, ovviamente, di non rifare un partito. Questo è importante, anche se difficile da immaginare in ragione del fatto che le parole sono state svuotate del loro significato: questa sceneggiata che da un anno e mezzo viene rappresentata in parlamento per cui nessuno vuole più parlare di partiti (ma solo di pseudo movimenti, coalizioni, ecc.) ha del ridicolo. I gruppi di oggi sono molto più “partiti” di ieri, riprova ne è che costringono i loro rappresentanti – deputati e senatori – a sottostare a una logica che cala dall’alto, al punto che oramai non è neanche più necessario giustificare agli occhi dei propri elettori le scelte che vengono imposte dall’alto. Se ti dicono di votare in un modo piuttosto che in un altro, questo può non aver più niente a che fare con il programma politico. È semplicemente perché un’opportunità politica esige che si faccia una cosa piuttosto che un’altra.
Simone Weil pensava invece che il meccanismo avrebbe dovuto piuttosto consentire ai singoli deputati di farsi carico in prima persona dei problemi portandoli a votare secondo affinità che si determinano nella concretezza della discussione piuttosto che seguendo la logica di partito. È un’altra idea di democrazia, più complessa, che comporta indubbiamente dei rischi, non lo nego. Ma in questo momento tutto va ridiscusso, traendone delle conseguenze. È difficile, ma è possibile, ed possibile nella misura in cui si è spinti da esigenze concrete. Nello scenario attuale c’è almeno un fattore evidentissimo che dovrebbe costringerci a pensare la politica in tutt’altro modo: ed è “lo straniero”. Ieri lo straniero era l’ebreo, il Rom, l’omosessuale. Oggi sono i migranti che arrivano dall’Africa e dall’Asia. Non è casuale che sia di nuovo la figura dello “straniero” a determinare la crisi del sistema politico. Questo per dire che se si parte dall’esigenza sperimentata di un problema, da una questione concreta, come mi pare di capire stia cercando di fare su vari fronti “Una mano per Nonantola”, si mettono in moto dei meccanismi che consentono di riflettere in prima persona e di fare delle scelte che tornano a essere realmente politiche.