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Illustrazione di R. Kikuo Johnson

Scuola viva

Una recente intervista di Elena Piffero, assessore all’ambiente di “Una mano per Nonantola”, in cui spiegava la scelta sua e del compagno Barak di istruire i figli a casa, ha generato un cicaleccio disinformato che rivela una certa confusione su ciò che attiene alla sfera pubblica e a quella privata. Nonché scarsa conoscenza del dibattito, vecchio come il cucco, o almeno come l’Unità d’Italia, sulla scuola pubblica.

La prima considerazione che viene da fare è che a Nonantola non esistono strumenti efficaci di comunicazione politica capaci di informare, coinvolgere e far crescere la comunità al di fuori dei social. Gli interventi su Twitter e Facebook (che, lo ricordiamo, sono aziende private) vengono travolti quasi sempre da reazioni di pancia, banalità da bar, attacchi livorosi, in un delirio crescente di ipocrisia e cattiveria a cui non dovrebbe essere data alcuna valenza istituzionale (come tende a fare sempre più spesso la stampa locale). Forse è venuto il momento di inventarsi qualche spazio di riflessione – bollettini, giornali, siti o altro – per dar voce alle istituzioni e alla società civile nonantolane in maniera più costruttiva e arricchente.

La seconda considerazione è per chi fosse preoccupato per il benessere e la crescita dei figli di Elena e Barak: noi amici garantiamo che stanno venendo su pieni di curiosità, vitalità, socievolezza e capacità di apprendere.

Infine, le due questioni più rilevanti, almeno in sede di dibattito politico e culturale.

La decisione di educare i figli a casa, in questa fase della vita, è una scelta personale di Elena e Barak. Non propongono un modello o un sistema educativo valido per tutti. Il libro che ha scritto Elena (Io imparo da solo!), interessante e appassionato, ne spiega le ragioni. La volontà espressa da Federica Nannetti di dar spazio nella nuova giunta alle competenze di Elena, indipendentemente dalle sue scelte personali, l’abbiamo letta fin da subito, e con ciò molto apprezzata, come espressione di pluralismo, moneta oggi rara quanto preziosa.

Alcuni strali lanciati contro la scelta personale di Barak ed Elena, considerata come un attacco alla scuola pubblica, rivelano tic ideologici che sarebbe utile esplorare, anche per il bene delle scuole nonantolane. Non c’è spazio per farlo qua (piuttosto in qualche futuro dibattito pubblico ben costruito), ma qualche parola vogliamo spenderla.

“Una mano per Nonantola”, a partire dai consiglieri e dagli assessori che ha espresso, crede profondamente nella funzione pubblica della scuola (che è cosa ben diversa dal fare della scuola o di qualsiasi altra istituzione statale una “vacca sacra”). “Pubblica” significa due cose: una scuola ben fatta e una scuola per tutti. Qualora manchi uno dei due termini, significa che la strada non può dirsi terminata. Compito della politica, anche locale, è verificare qual è la direzione imboccata.

Quando e a quali condizione la scuola italiana è andata nella direzione di un’istituzione educativa “buona e per tutti”?

L’ultima appassionante stagione riformistica per la scuola italiana si è conclusa insieme ai “trenta gloriosi” che hanno seguito la Seconda guerra mondiale: la riforma della scuola media unica; i decreti delegati che hanno istituito organi collegiali per il governo delle scuole di ogni ordine; i corsi delle 150 ore per il recupero della licenza media conquistati dai metalmeccanici nel 1973 ed estesi presto a tutte le categorie di lavoratori, ai disoccupati, alle donne, agli anziani; la fine delle classi differenziali e il primo graduale inserimento degli alunni diversamente abili; l’istituzione del tempo pieno; l’investimento nei nidi e nelle materne considerati come gradi scolastici fondamentali. E l’elenco è sicuramente incompleto.

Che cosa ha consentito questi processi di apertura istituzionale?

In termini politici il dialogo, serrato, spesso conflittuale, con tutto quello che di più vivo e “dissidente” si muoveva fuori dalle istituzioni: in particolare con il movimento studentesco e quello non autoritario degli insegnanti.

Sul piano pedagogico, il confronto poroso con le esperienze educative capaci di porre realmente i bambini e i ragazzi al centro del processo formativo. Nella maggior parte dei casi queste esperienze venivano fatte fuori dalla scuola, ma fino a un certo punto la scuola italiana è stata capace riportarne nel suo alveo i principi e i metodi pedagogici. Per citarne qualcuna: il Centro educativo italo svizzero di Margherita Zoebeli a Rimini; “Scuola-città Pestalozzi” di Firenze; il Movimento di cooperazione educativa e i maestri che l’hanno animato (tra cui Aldo Pettini, Marcello Trentanove, Bruno Ciari e Mario Lodi); la federazione dei Cemea (Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, che si sono occupati soprattutto dell’extrascuola); il lavoro pionieristico di Adriano Milani Comparetti (fratello del più famoso Lorenzo) con i bambini diversamente abili; quello di Maria Montessori, iniziato anch’esso con i bambini “oligofrenici”, come venivano definiti in quegli anni, o con le famiglie meno abbienti del quartiere popolare di San Lorenzo a Roma; don Milani e la scuola di Barbiana (che attraverso la “Lettera a una professoressa” ha avviato con la scuola di stato un dialogo serratissimo); le esperienze anarchiche di Giovanna Caleffi (moglie di Camillo Berneri) e della sua colonia estiva di Piano di Sorrento e quelle di Fabrizia Ramondino e dell’Associazione risveglio Napoli. E poi non possiamo dimenticare, non per ragioni campanilistiche ma per la luminosità dell’esperienza pedagogica che ha rappresentato non solo per il nostro territorio, la Scuola di avviamento professionale ideata da don Beccari a Rubbiara.

Cosa ci insegna questa “storia” ricchissima di sperimentazioni e di riforme? Che si può e si deve difendere il ruolo di servizio pubblico della scuola senza con ciò rinunciare a immaginarla più inclusiva, più bella e più efficace di come è.

Certo una gran parte della galassia, oggi molto vivace e poco studiata, delle scuole “libere” – parentali, steineriane, montessoriane, libertarie, ecc. – è mossa anche da spinte elitarie e da esigenze di controllo delle famiglie sui loro figli. Compito della pedagogia prima e della politica poi sarebbe quello di selezionare e mutuare all’interno delle istituzioni pubbliche quanto di interessante e utile si muove anche in quella galassia.

Come scrive anche Enrico Piccinini alla fine di un comunicato stampa della giunta in merito alle polemiche pseudopedagogiche di questi giorni, la strada per garantire a tutti l’accesso ai servizi educativi per la prima infanzia, la lotta all’abbandono scolastico e il contrasto a una certa tendenza discriminante nei confronti delle famiglie straniere non possono dirsi conclusi. Se oggi, ad esempio, sostituissimo i ragazzini stranieri ai “Gianni” della “Lettera a una professoressa” potremmo scoprire che l’impianto argomentativo degli alunni di Barbiana è ancora attualissimo. Forse dialogare, senza pregiudizi, con quello che si muove intorno può fornire nuove idee alla scuola, per essere realmente buona, realmente di tutti.

Questo articolo ha 2 commenti

  1. Gian luigi casalgrandi

    Bel “pezzo”!

  2. nadia raimondi

    Argomentazioni stimolanti per riflessioni ulteriori, anche relative alla scuola pubblica da aiutare ad evolversi e/o a cambiare ma da sostenere SEMPRE.
    Continuo a pensare che Elena Piffero avrebbe dovuto meglio considerare il suo ruolo pubblico e di conseguenza gestire diversamente la pubblicazione delle sue pur legittime scelte personali

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